Il salario minimo non è il salario d’efficienza

Fra i vari interventi che si sono susseguiti al Forum Ambrosetti 2023, sarebbe dovuto spiccare senz’altro un passo di un’intervista rilasciata da Joseph Stiglitz, economista premio Nobel del 2001, che ha riguardato il suo appoggio all’ipotesi di salario minimo. Cerchiamo allora di capire qualcosa del perché egli possa sostenere un aumento del salario minimo e perché riteniamo si riferisse a qualcos’altro.

In questo modo, potremo anche spiegarci le ragioni del mancato risalto a questa posizione di Stiglitz, come conferma della scarsa competenza in materia che coinvolge gran parte dei politici che però stanno discutendo proprio di questo.

Stiglitz ha conseguito il premio Nobel in economia proprio per aver ideato (assieme a Gordon Shapiro) un modello del mercato del lavoro in cui le imprese sarebbero stimolate a corrispondere salari più alti di quelli che si fisserebbero in un sistema di libera contrattazione. Il motivo di questo fatto è duplice: da un lato, un salario più elevato stimolerebbe le imprese a occupare un numero inferiore di lavoratori, rispetto a quello che potrebbe e vorrebbe lavorare, creando una certa disoccupazione in grado di “disciplinare” i lavoratori minacciandoli di licenziamento, in caso di scarso impegno. Dall’altro, lo stesso salario più elevato incentiverebbe ad occupare proprio i lavoratori maggiormente produttivi, innalzando la produttività media che l’impresa ottiene dai lavoratori.

Questo duplice effetto sarebbe teoricamente in grado di spiegare le ragioni di una disoccupazione persistente, in determinate economie, anche in assenza di un certo grado di sindacalizzazione dei lavoratori, ma giustificherebbe il supporto all’introduzione di un salario minimo superiore a quello corrente, per gli effetti positivi sulla produttività del sistema, oltre che di aumento dei redditi dei lavoratori occupati. I disoccupati aggiuntivi potrebbero infatti essere reimpiegati in altri settori, e/o indennizzati mediante il gettito fiscale incrementale, per via dell’aumento del monte salari erogato e dei profitti conseguiti all’aumento della produttività, migliorando così l’efficienza del sistema e rendendo i lavoratori disponibili per altre occupazioni.

Ebbene, se questo è il succo del ragionamento che spiega le ragioni per le quali ci potrebbe essere, in un sistema economico, un livello dei salari più alto del livello di concorrenza, il passo da questa ipotesi di salario d’efficienza all’aumento del salario minimo può essere però ingannevolmente breve, se non si chiariscono i limiti della proposta attualmente in discussione, che la rendono invero impraticabile.

La risposta di Stiglitz, infatti, si riferiva a un innalzamento del salario minimo (1) stabilito dalle imprese e (2) cui corrispondesse un incremento della produttività dei lavoratori impiegati. Solo in questo modo si potrebbe ritenere che un aumento del salario minimo possa essere perseguito nell’interesse delle imprese, per aumentare la produttività, oltre che nell’interesse dei lavoratori, per aumentare i salari più bassi, il monte salari e la qualità dei lavori disponibili.

Qualora fosse invece sostenuto solo nell’interesse dei lavoratori, l’errore esiziale della proposta di salario minimo attualmente in discussione in Italia, consiste nel prevedere l’introduzione di un minimo salariale in termini monetari e non in termini reali, ossia di potere d’acquisto di quel salario, col risultato, che abbiamo già sottolineato varie volte, che un aumento dei prezzi, stabiliti dalle imprese, farebbe evaporare velocemente l’incremento del salario minimo eventualmente stabilito.

D’altro canto, se anche si fissasse un salario minimo in termini di potere d’acquisto, prevedendo un adeguamento periodico del salario minimo all’inflazione subita, anche trascurando il fatto che l’adeguamento interverrebbe dopo che la perdita si sia già realizzata, si rischierebbe di ingenerare una rincorsa prezzi-salari che in Italia abbiamo già affrontato in passato (anni 70 e parte degli anni 80) e che si è svolta e conclusa (dalla metà degli anni 80 e fino agli anni 90) solo mediante la scelta di una riduzione del potere d’acquisto di lavoratori dipendenti e pensionati, intervenuta politicamente e col consenso degli stessi partiti tradizionalmente favorevoli alle istanze dei lavoratori.

Per questo motivo, oggi come allora, un’ipotesi di introduzione di un salario minimo che possa determinare concretamente l’obiettivo che dichiara di perseguire, ossia una diversa distribuzione dei redditi, deve essere accompagnata da una politica dei redditi a livello nazionale, che coinvolga imprese, lavoratori e Governo, per stabilire effettivamente una diversa distribuzione, maggiormente orientata ai redditi da lavoro dipendente e soprattutto a quelli di minore importo. Senza una politica dei redditi di questo tipo, ogni proposta di salario minimo costituisce un inganno per i lavoratori perché sarà completamente inefficace per loro; anche se potrà ovviamente far conseguire qualche voto in più a chi sarà in grado di battersi efficacemente per la sua illusoria realizzazione.

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