Gabbie salariali o aumento dei consumi?

Con un ordine del giorno presentato il 5 dicembre alla Camera,[1] il Governo ha accolto una proposta della Lega che vorrebbe differenziare i salari in base al loro potere d’acquisto; quantomeno per i dipendenti pubblici.[2] Non è detto che vi riesca ma, a tal proposito, riteniamo utile avanzare una criticità e riflettere su un’opportunità.

Come premessa, bisogna innanzitutto ricordare che, secondo la teoria economica corrente, il salario remunera la produttività marginale del fattore lavoro; quindi il salario tenderebbe a essere differenziato in funzione della produttività e non del suo potere d’acquisto. A questa teoria si è storicamente opposta la concezione, di ascendenze marxiane e quindi socialiste, per cui il salario remunera la forza lavoro a un saggio che è pari al livello di sussistenza dei lavoratori, e quindi funzione della sua capacità di acquistare un paniere di merci appena sufficiente alla vita del lavoratore, secondo gli standard di vita correnti. C’è quindi un paradosso, al quale abbiamo già assistito, che fa sì che i partiti di sinistra e i sindacati, storicamente più vicini alle istanze socialiste che a quelle liberali, si battano contro la differenziazione dei salari piuttosto che per aumentare il paniere di sussistenza.

Ciò causa sicuramente un problema perché, in effetti, il salario che si stabilisce in un sistema economico è anche una remunerazione relativa rispetto agli altri fattori ma concretamente non può prescindere dai prezzi dei beni che può acquistare. Questo è sintetizzabile nel dire che il salario è sia un salario relativo (espresso in termini di remunerazione degli altri fattori) che un salario reale (espresso in termini di beni acquistabili). Ecco che l’economia è immediatamente politica e quindi oltre al primo paradosso, politico-sindacale, si può rilevare direttamente almeno una criticità ma anche un’opportunità da non sottovalutare, per considerare proprio il collegamento fra il salario e i prezzi.

La criticità. I luoghi dove si producono le merci non sono necessariamente i luoghi dove esse sono vendute; quindi, quando si propone che i salari possano essere differenziati in modo da “aggiungere una quota variabile di reddito temporaneo correlato al luogo di attività”, non si considera che i costi di produzione sono sostenuti nel territorio A e quindi i salari continuerebbero a non essere pagati in funzione dei prezzi del territorio B. In ogni caso, se invece si riscrivesse la proposta in modo da proporre una differenziazione dei salari in relazione al luogo di vendita, le imprese “labour intensive” sarebbero incentivate a spostare le produzioni lontano dai mercati di sbocco più remunerativi. Con due possibili conseguenze: a) un effetto perverso di danno al tessuto commerciale, che si impoverirebbe per la riduzione del numero di acquirenti lavoratori; b) un rincaro dei salari per le imprese che rimarrebbero sul territorio, con il rischio che tali incrementi tenderebbero a essere ribaltati sui prezzi finali, alimentando ulteriori rincari e una paradossale spirale inflazionistica a danno anche dei lavoratori.

L’opportunità. Partendo da questa critica, si potrebbe allora valutare un incentivo ad emendare positivamente la proposta. Si potrebbe prevedere un salario differenziato non in base ai prezzi, o alla loro variazione, bensì in base al valore della spesa effettuata dai lavoratori. [3] La spesa minore effettuata in determinate aree territoriali, rispetto ad altre, sarebbe così stimolata a crescere in collegamento coi salari che seguirebbero l’aumento della spesa. Questo potrebbe comportare che, anche senza inflazione, qualora i lavoratori consumassero di più e meglio, l’ISTAT sarebbe chiamato a certificare un loro diritto ad avere un successivo stipendio più alto.

Una premessa per poter direzionare la proposta in tal senso, potrebbe essere data dall’apertura di una discussione sul livello attuale dei consumi e sulle variazioni relative e reali dei salari negli ultimi decenni. Una conseguenza, non necessariamente sbagliata invece, potrebbe consistere in un incentivo ai lavoratori a non comprimere la propria spesa per i vincoli di reddito attuali, ma considerando che l’anno successivo vedrebbero il proprio reddito adeguarsi alle esigenze di consumo espresse. Le imprese beneficerebbero anticipatamente di un incremento delle vendite, senza un’inflazione da salari, e si potrebbe realizzare uno stimolo alla domanda aggregata, rilanciando i consumi, che sono in riduzione da molti mesi[4] a causa dell’inflazione indotta dai prezzi energetici.


[1] https://aic.camera.it/aic/scheda.html?numero=9/01275-A/001&ramo=CAMERA&leg=19

[2] https://www.ilsole24ore.com/art/lavoro-maggioranza-trova-l-accordo-gabbie-salariali-ecco-come-funzionano-AFPpZrxB

[3] https://www.istat.it/it/archivio/289383.

[4] https://www.avvenire.it/economia/pagine/commercio-in-calo-dello-0-3-a-settembre-istat

Pubblicato in News

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *